È l’inizio di un anno importante, veramente importante – festeggeremo infatti il 60° del Comune dei Giovani – e dobbiamo essere carichi, convinti, motivati, determinati.
Purtroppo, da due anni viviamo sotto scacco. Questa situazione generale (crisi sanitaria, economica, sociale…), sta colpendo duramente le nostre persone, le nostre famiglie la nostra comunità e sta facendo traballare, dubitare anche i più forti.
Di questa situazione ci sono due sottolineature che vale la pena fare. La prima è generale e riguarda l’apatia, la perdita del desiderio, la sfiducia, la rassegnazione, l’ammosciamento totale e generale, il “calo vitale” – soprattutto tra gli adolescenti – il chiudersi in casa e in noi stessi.
La seconda è relativa a chi si dà e si dava da fare: abbiamo assistito a un lento, progressivo ritirarsi dalla scena o dal campo, un chiamarsi fuori perché stanchi e demotivati, perché amareggiati per mille cose, perché “ho già dato e tocca agli altri…” salvo poi lamentarsi perché gli altri non ci sono (varrebbe la pena, a questo proposito, rileggere Papa Francesco che in Evangelii gaudium, a partire dal punto 76, parla delle “Tentazioni degli operatori pastorali”).
Cosa possiamo fare? Come prima cosa, dobbiamo non perdere la speranza, non perdere la compagnia.
In una recente intervista a La Voce dei Berici suor Emanuela Abriani afferma che Santa Maria Bertilla Boscardin (di cui quest’anno si celebra il centenario dalla morte) “ha vissuto il quotidiano, nulla di eclatante o fuori dalla portata dell’uomo semplice, in modo straordinario, ritrovando Cristo in ogni cosa”. Il suo esempio lascia “un messaggio di speranza che nasce e si sviluppa nella fede: Con il crocifisso in mano tutto è più leggero, scriveva Bertilla nel suo diario”. Ancora: “un altro messaggio che lei potrebbe consegnarci è quello della relazione e della prossimità”. Ma come si fa a camminare insieme? “L’ascolto è il segreto e Bertilla ne è l’esempio […] Bertilla indica l’importanza di stare in silenzio e di ascoltare l’altro senza pretesa di dare risposte pronte. Ci insegna ad avere pazienza, nell’attesa che l’altro si esprima […] Ci insegna a camminare accanto”.
Infine, Santa Maria Bertilla Boscardin “insegna la perseveranza e la fedeltà in una radicalità che profuma di rettitudine e di fiducia, a me insegna a non lasciarmi abbagliare, ma essere luce, anche piccola, ma capace di illuminare il cammino di chi mi vive accanto”.
C’è molto dell’approccio di don Didimo in questi insegnamenti. Anche lui invitava a un ordinario vissuto in modo straordinario, sottolineava il valore della relazione, del silenzio e dell’ascolto, esortava alla pazienza, alla perseveranza e alla fedeltà nonostante tutte le difficoltà.
Come seconda cosa, dobbiamo ascoltare e fare noi il primo passo. Ascoltare è il cuore dell’anno sinodale voluto da Papa Francesco. L’ascolto è il tema forte di tante riflessioni proposte dalla Chiesa a tutti i livelli.
Nell’ultima Lettera Pastorale di mons. Beniamino Pizziol (Camminiamo insieme. Lo Spirito Santo e noi), c’è l’invito a “camminare insieme nell’ascolto dello Spirito”. Gli incontri di quest’anno in diocesi per la formazione permanente sono sul tema dell’ascolto. Sempre La Voce dei Berici, il 30 gennaio, intervista uno dei relatori del corso, la teologa Assunta Steccanella: “Pensiamo troppo a fare, piuttosto che ad ascoltare”; parla di ascolto attivo: “l’ascolto attivo è relazionale, bisogna far percepire all’interlocutore che lo si sta ascoltando davvero, rispecchiando quello che dice in modo che il dialogo diventi autentico”.
La settimana precedente ne parlava don Nico Dal Molin, responsabile per la diocesi della formazione permanente: “ascolto è una parola inflazionata: è talmente utilizzata che può dire molto, ma può anche dire nulla […] serve allenamento, una strategia, serve una formazione specifica”. Don Dal Molin citava anche l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini e la sua lettera agli adolescenti, i primi e più bisognosi di essere ascoltati (https://www.chiesadimilano.it/news/chiesa-diocesi/larcivescovo-agli-adolescenti-meglio-fellowers-che-followers-474112.html).
Fare noi il primo passo, concretamente, non solo con i buoni propositi:
1. nel saluto, nell’attenzione, nell’ascolto, nell’incontro, nella parola “vera”;
2. nell’interessamento, nell’aiuto spontaneo, senza aspettare che ci venga richiesto. Se aspetti che sia l’altro a chiedere aiuto lo metti magari in difficoltà. Se lo fai tu, è gratuità tua e libertà sua di accettare.
3. nel chiarire, chiedere le ragioni del male subito. Chi sente di aver ricevuto un torto, una cattiveria gratuita, una esclusione ingiustificata, una critica ingiusta, chieda prima possibile un chiarimento, una spiegazione, per poi ricucire, ricostruire, rinsaldare un legame. Per distruggere un legame costruito negli anni, basta purtroppo un niente e da soli siamo tutti più deboli.
Cosa c’entra questo con la crisi? Ernesto Olivero, fondatore del Serming, riconosceva la sua originaria ispirazione nelle parole di frère Roger Schutz – fondatore della comunità di Taizé – quando diceva che “sarebbe bastato un pugno di giovani per cambiare il corso della storia di una città, di un paese, in definitiva del mondo”, questa era stata la scintilla del suo progetto. Aggiungeva poi che “la differenza, del resto, può farla solo l’ideale che metti al centro di tutto”. Come non vedere anche in queste parole l’idea del Comune dei Giovani, la nostra realtà, noi?
Nell’episodio del Vangelo di domenica scorsa, quello sulla pesca miracolosa, gli apostoli sistemavano le reti, avevano lavorato inutilmente tutta la notte, erano stanchi, delusi, amareggiati, scoraggiati e Gesù dice a Pietro “prendi il largo”. Loro si fidano, obbediscono e poi pescano in maniera miracolosa. Mi pare di vedere noi: “abbiamo dato”, “abbiamo fatto”, “ancora noi?”, “basta, che due…”. Gesù, tra l’altro, lo chiede a tutti indistintamente, non distingue in quanto hai lavorato, quanto siete stanchi, quanti anni avete da animatori, dirigenti, ministri, quanti anni di consiglio, ecc. Non ne fa neppure una questione di età: i pescatori a quel tempo non andavano mai in pensione, si pescava sempre e sempre si era al servizio.
Così per noi come quei poveri pescatori, noi semplici strumenti nelle mani di Dio, noi con tutti i nostri limiti, difetti, debolezze e stanchezze. Anzi, è proprio in questi casi che Dio lavora meglio.
Un’ulteriore conferma che dobbiamo fidarci di Cristo ce l’abbiamo se pensiamo che Gesù manda gli apostoli a pescare di giorno, cioè chiede di fare una cosa assurda agli occhi di un pescatore, che sa bene che la pesca si fa di notte. Tuttavia, Pietro e gli altri si fidano contro ogni esperienza e così diventano strumenti attraverso i quali si compie il miracolo.
Questo ci fa pensare non ai risultati ma ai frutti del nostri agire per Cristo che sono prima di tutto un cambio in noi, sulle nostre persone: disponibilità, fiducia, offerta, che ci mettono al riparo dal cruccio dei risultati, dall’amarezza dell’insuccesso, dalla delusione del mancato plauso e riconoscimento.
Per il card. Giacomo Biffi (Stilli come rugiada il mio dire, ESD 2015) quella barca è la Chiesa di tutti i tempi: “Prendi il largo”, dice. “Non avere paura di avventurarti lontano dalle opinioni della folla […] una Chiesa assimilata e mondanizzata non converte nessuno”. E poi: “Sulla tua parola getterò le reti […] il segreto della vitalità della Chiesa non sta tanto nella sua ansia di rendersi credibile e accettabile, quanto nella sua umile e sincera volontà di essere credente e più vicina a Dio e alla sua legge d’amore”. Infine, “Allontanati da me che sono un peccatore”: come per Paolo e Isaia, Pietro si sente profondamente indegno. Così dovrebbe essere per ogni seria vita ecclesiale, ci si sente così inadeguati che non si pensa più alle colpe degli altri con il solo desiderio di salvarli.
Riproponiamo una sintesi dell'intervento del presidente Gabriele Alessio durante la riunione del Consiglio delle Opere di martedì 18 gennaio
Il 2022 sarà l’anno del 60° del Comune dei Giovani, l’anno del 40° del Premio Cultura Cattolica e, pochi forse lo ricordano, dei 25 anni del Consiglio delle Opere. Il primo “regolamento” costitutivo è infatti del dicembre 1996 e la prima riunione è dell’inizio del 1997.
Erano trascorsi pochi anni dalla morte di don Didimo, nel 1991, e si stabilì di dare vita al CdO perché fosse un organismo collegiale, e non un singolo, a farsi garante dell’eredità spirituale ed educativa del nostro fondatore. Così, ancora oggi, il CdO riunisce tutti i presidenti delle nostre attività, il Sindaco e il segretario del CdG e dei membri eletti e nominati per supportare e per fare da “punto di unità” per tutte le realtà del movimento.
La nostra, infatti, è come una galassia e tanto più è grande la galassia tanto più forte, compatto, ne deve essere il centro, che è appunto il Consiglio delle Opere. Come ha spiegato recentemente don Alessio Albertini nell’incontro per il 60° del Calcio, lui come assistente del Centro Sportivo Italiano, deve verificare, garantire, che ogni gruppo o sezione riconosca e rispetti i principi ispiratori dell’associazione. Così era per noi quanto avevamo l’assistente (don Didimo prima e, per qualche anno in seguito anche don Antonio Gonzato): l’assistente era il sacerdote, l’adulto, l’educatore, il garante del rispetto in ogni nostra associazione dei principi ispiratori e fondanti del CdG. Per questo motivo, l’assistente aveva da statuto anche un diritto di veto con il quale intervenire laddove vedesse che quei principi ispiratori non erano rispettati.
Il CdO è come un giardiniere o un contadino, che puntella e sostiene la pianta perché cresca dritta, ne pota i rami perché si sviluppi armonica e porti più frutto. Organizza le colture, studiando come metterle e dove metterle, perché tutte abbiamo il loro spazio e godano delle condizioni ottimali; egli sa annaffiare e concimare quando serve, toglie le erbacce per ottenere sempre i prodotti migliori.
Il CdO è come un direttore d’orchestra che dirige le voci e i vari strumenti perché, seguendo tutti lo stesso spartito, possano insieme interpretare nel miglior modo possibile l’opera che è stata loro affidata.
Venerdì 31 dicembre è mancato mons. Luigi Negri. Mercoledì 5 gennaio, in occasione delle sue esequie, il Centro Studi Livatino ha pubblicato nel suo sito questo intervento della presidente della Scuola di Cultura Cattolica Francesca Meneghetti.
Mons. Luigi Negri è stato un grande amico delle Opere fondate da don Didimo Mantiero a Bassano del Grappa, in particolare della Scuola di Cultura Cattolica. Un’amicizia nata da una passione educativa comune e dallo slancio nel voler tradurre la fede in cultura viva e presente. L’amicizia è durata decenni, durante i quali più volte è venuto a tenere incontri e conferenze (la prima il 4 aprile 1984, con il titolo “Cultura: impegno per l’uomo”). Un suo ciclo di lezioni tenuto a Bassano è stato anche raccolto in un volume pubblicato nel 2008 da Cantagalli e intitolato “Lo stupore di una vita che si rinnova”.
L’amicizia, ma soprattutto il riconoscimento dell’opera di mons. Negri nel panorama culturale cattolico, è quindi sfociata nel conferimento – nel 2013 – del Premio Internazionale medaglia d’oro al merito della Cultura Cattolica. Così da allora anche il suo nome figura nell’elenco di coloro che sono stati testimonianza eccellente nel “fare della fede cultura”, assieme a quello di don Luigi Giussani, il maestro con il quale ebbe il suo incontro folgorante con la fede in Gesù.
Il filosofo Gustavo Bontadini scriveva che «se si spegne il senso della verità, allora occorre chiedersi se non siamo di fronte a una trasformazione antropologica, se non siamo di fronte a uomini che sembrano uomini ma in realtà non lo sono». Riletta oggi, di fronte a questa dichiarazione viene da dire che certamente siamo di fronte a una trasformazione antropologica, perché sempre più sembrano essere le persone che hanno smarrito il senso della verità: quella verità che era una parola tanto cara anche al nostro fondatore don Didimo Mantiero, che ne fece non a caso il fulcro del suo impegno formativo, educativo e culturale. La compagnia di mons. Negri è stata preziosa per tutti noi in questo percorso di ricerca della verità con la ragione sempre aperta al Mistero, nella consapevolezza che l’uomo è una domanda che ad esso tende e nella certezza che la fede non tarpa le ali alla ragione.
Oggi siamo immersi in un contesto in cui la ragione vorrebbe silenziare la fede, ed è una ragione chiusa in se stessa ed ideologizzata. La cultura dominante vorrebbe che la ragione e la fede fossero due universi paralleli che non si incontrano mai e soprattutto vorrebbe che la fede restasse in un angolino il più privato possibile. Ma, come mons. Negri richiamava sempre quando ne aveva l’occasione, la ragione che non sente l’impatto con la fede è come una finestra che resta chiusa sulla realtà. Questo è ciò che con la sua amicizia e con il suo esempio egli ci ha insegnato e per questo ringraziamo la Provvidenza di aver generato nella nostra storia l’incontro con personalità come la sua, sempre coraggiose nell’annuncio della Verità.
Il calcio Santa Croce nel 2021 ha spento 60 candeline e martedì 14 dicembre ha festeggiato la ricorrenza con la prima di due serate che sono state pensate per dare lustro all’anniversario. Il primo appuntamento svoltosi martedì è stata una tavola rotonda con tre ospiti d’eccezione. Erano invitati, infatti, Ezio Glerean, attualmente allenatore del Marosticense, l’ex capitano del Cittadella e oggi mister della primavera granata Manuel Iori e don Alessio Albertini, fratello del giocatore Demetrio e consulente ecclesiastico nazionale del CSI.
Sono stati tanti i temi affrontati durante la serata, un momento in cui non si è parlato di tecnica e di risultati, ma dei valori che devono ispirare lo sport, come l’impegno, il rispetto dei compagni e delle regole, del valore della sconfitta e di come un campo può essere un luogo di crescita personale. Sono valori, ha detto in apertura il presidente della società Fabio Mariotto, che fin dalla fondazione hanno guidato l’attività dei biancoverdi che oggi coinvolgono “quasi 300 persone tra atleti, allenatori, dirigenti e collaboratori”. “Il nostro intento è quello di portare avanti quello che il nostro fondatore si era prefissato, rendere il calcio non fine a se stesso, ma un passaggio educativo nel quale il ragazzo viene formato integralmente” all’interno di un’ottica cristiana, ha ribadito Mariotto.
Si è congratulato con gli organizzatori anche l’assessore allo Sport di Bassano Mariano Scotton, che ha ricordato “i tanti momenti passati a discutere di calcio, di sport, ma molto spesso di educazione dei ragazzi” proprio con mister Glerean. “Questa società in 60 anni ha fatto comunità educante, ha fatto crescere tanti ragazzi che prima hanno giocato, poi hanno allenato e poi hanno fatto i dirigenti”, ha concluso l’assessore, che ha concluso sottolineando il rilievo che l’asd Santa Croce ha nel panorama sportivo bassanese.
“L’esperienza dell’allenare è sempre più grande rispetto alla questione tecnica perché, dietro l’esperienza che un ragazzo fa nel giocare, apprende qualche cosa, per questo i salesiani avevano inventato il termine di alleducatore”, ha commentato don Alessio Albertini. “Un bravo allenatore – ha proseguito – è capace di far crescere un ragazzo facendogli vivere un’esperienza continuativa d’allenamento che diventa tecnico, ma che diventa anche capacità di stare in un gruppo, di stare con gli altri, di rispettare le regole, di stare al proprio posto per rispettare le gerarchie; tutte cose che ti aiutano ad essere uomo nella vita”.
Che sia fondamentale sentirsi parte di una compagine unita lo ha confermato anche Manuel Iori, forte dell’esperienza di 22 anni da calciatore professionista: “Non ho mai vinto senza che prima ci fosse un gruppo e poi, se non ci sono dei compagni con cui condividerla, la vittoria ha un altro sapore”. Lo ha seguito a ruota lo stesso Glerean, che ha raccontato di quanto sia stato importante nella sua carriera aver saputo quando proporre alla squadra, anziché una seduta di allenamento, un’attività ricreativa con la finalità di sviluppare i rapporti personali tra i giocatori, e quindi di rinsaldare il gruppo.
Umiltà e gratitudine, infine, sono la ricetta per diventare la “bandiera” di una squadra, in un calcio che oggi è più attento agli ingaggi, ai bilanci e alle carriere personali. Si dice spesso che non ci sono più i Maldini, i Del Piero, i Totti. Manuel Iori è stato una bandiera per il Cittadella e ha confermato: “mi sono legato alla maglia perché ho trovato chi mi ha trasmesso certi valori e l’attaccamento ad essa”.
La serata si è conclusa con la consegna di alcuni doni agli ospiti ed un invito a tutti al secondo e ultimo appuntamento in programma per i festeggiamenti dell’anniversario, che sarà una serata di gala che si svolgerà il 17 marzo in Villa Rezzonico.