Si è conclusa nel pomeriggio di sabato 25 maggio la 23ª edizione del Torneo “Memorial Antonio Ricchieri”, organizzato dalla sezione Calcio dell’A.S.D. Santa Croce, a conclusione di una settimana di incontri tra le 16 squadre delle categorie Pulcini misti ed Esordienti a 9 convocate presso gli impianti sportivi di via Ca’ Dolfin.
Il Torneo Ricchieri è un’iniziativa che per la società guidata da Fabio Mariotto è ormai un punto fermo, che quest’anno è riuscito a coinvolgere più di 200 ragazzi. Tutto si è svolto secondo le previsioni, senza intoppi organizzativi, nonostante il tempo non sia stato sempre clemente.
Sabato, dunque, sono stati assegnati i premi alle prime classificate di entrambe le categorie. Tra gli Esordienti a 9 è stata proprio la squadra di casa, il Santa Croce, ad aggiudicarsi il primo posto, vincendo per 2-1 contro i coetanei dell’US Ardisci e Spera. I Pulcini misti, invece, hanno visto trionfare i giocatori della New Generation Mussolente, che si sono imposti per 3-0 sul San Vito, che ha però portato a casa il Premio Fedeltà come società con le maggiori partecipazioni al Memorial Ricchieri.
Il bilancio tracciato dal presidente Fabio Mariotto è più che positivo, sia quanto a partecipazione che dal punto di vista organizzativo. Tutte le partite si sono svolte, infatti, nel pieno rispetto delle regole e degli avversari. “Il valore educativo dello sport è un aspetto a cui la nostra Società tiene in modo particolare – è il commento di Mariotto – ed è per questo che vogliamo che passi il messaggio, ad atleti e genitori, che la priorità da avere, soprattutto nelle squadre giovanili, è che i ragazzi imparino a divertirsi stando in compagnia e che una partita si può anche perdere, perché si tratta pur sempre di un gioco. L’importante è metterci il massimo dell’impegno”.
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Guardare il Sessantotto da un altro punto di vista. Era l’obiettivo di Giancarlo Cesana, professore onorario di Igiene all’Università di Milano Bicocca, invitato a Bassano del Grappa dalla Scuola di Cultura Cattolica per l’ultimo incontro del ciclo primaverile di conferenze. Un punto di vista, il suo, sicuramente particolare, essendo stato in quegli anni tra i principali collaboratori di don Luigi Giussani, il fondatore di Gioventù Studentesca prima e Comunione e Liberazione poi. Un’esperienza per lui decisiva alla quale arriva in maniera inaspettata. Cresciuto in un ambiente “cattolico spinto” in Brianza, considerata allora la Vandea d’Italia, “a 14 anni ero avviato verso un cristianesimo secondo me”. È un momento di grande confusione nella Chiesa: “facevamo grandi marce per la pace, ma si perdevano i grandi riferimenti tradizionali che sostenevano la vita”.
La svolta giunge negli anni dell’università, che “viene occupata e dopo 6 anni, quando mi sono laureato, era ancora occupata”. In quegli ambienti, ha commentato, “ho visto cos’è il comunismo, perché la ribellione che era partita contro l’autorità, si è poi riversata nel marxismo. Innanzitutto, non potevi mettere fuori neanche un manifesto, poi ti menavano, non potevi fare le assemblee”.
La svolta, tuttavia, non arriva dalla politica, ma da una questione sentimentale: “mi innamorai di una che non ci stava, e questo mi obbligò a pormi una domanda: o sono sbagliato io o la soluzione che cerco non è quella che pensavo”. È così che il giovane Cesana fonda un gruppo parrocchiale che inizialmente avversa proprio quella Gioventù Studentesca che aveva come indicazione educativa “la caritativa”: “andare in mezzo ai poveri per educarsi a capire come Dio aveva condiviso i nostri bisogni, per cercare di capire la Verità”.
Durante un campeggio estivo, però, gli capita di ascoltare la registrazione di un sacerdote che chiedeva quali fossero le prime parole di Gesù all’inizio della sua predicazione: “venite e vedete”. Quel sacerdote era don Luigi Giussani. Il quale invitava a partire dall’esperienza e proponeva l’annuncio cristiano in maniera del tutto inedita. Diceva infatti Giussani: “voi, se cercate la verità, non potete pensare che essa sia quello che ritenete voi, perché se la verità siete voi non può esserci una verità più grande. Per conoscerla, la verità, va provata: iniziate dalla vostra tradizione, da ciò che vi dicono della verità le persone che sono vicine a voi, provate, e poi vedete se vi corrisponde”. “Questo approccio cambiò il mio Sessantotto e iniziai a guardare con uno sguardo diverso la tradizione, che il movimento rivoluzionario voleva letteralmente abbattere, e poi come valutazione delle cose, di ciò che era giusto o sbagliato. Per me in un attimo era cambiato il mondo”.
Tuttavia, ha proseguito, “la mentalità generale rimaneva tutta di sinistra” e questa avrebbe favorito l’instaurarsi di un’impostazione culturale relativista della quale non ci siamo più liberati (“ha ragione Berlusconi quando dice che il grillismo di oggi è un ’68 andato oltre la data di scadenza”). Di questo clima capisce tutto il grande filosofo Augusto Del Noce, il quale già nel 1968 scrive che l’insurrezione giovanile nasceva come reazione alla società del benessere fine a se stessa, cioè di una società che vedeva nel benessere l’unico sbocco della vita. Una situazione che coinvolgeva anche tante famiglie cattoliche, “che andavano in chiesa la domenica, ma che raccomandavano ai figli non l’ideale cristiano, ma di prendere il posto in banca”. Così i giovani insoddisfatti si erano affidati all’ideologia marxista, che essendo materialista non era sufficiente a dare una risposta a chi cercava la verità. Come prevede Del Noce, “il movimento di ribellione sarebbe stato riassorbito in una società narcisistica, l’unica capace di coniugare le istanze rivoluzionarie con la ricerca del proprio benessere personale”.
Per contrastare questa situazione, l’indicazione di don Giussani è di “non essere reattivi e di ripartire dall’originalità”. Impostare la propria attività come reazione a una provocazione altrui significa che il criterio della propria azione, del proprio pensiero e della propria risposta non è dentro di sé, ma negli altri. Così “iniziammo a preoccuparci meno di quello che pensavano gli altri, e di più a quello che vivevamo noi”.
La ricetta di Giussani è valida ancora oggi: “bisogna partire dall’originalità, da ciò che ci costituisce originariamente, e prima di tutto c’è Cristo”. Bisogna rientusiasmarsi dell’inizio, del fatto che la morte non ha vinto su tutto, “che l’ultimo punto di vista sulla vita non è la morte, quindi si può dare la vita per gli altri con gratuità”. Bisogna ripartire daccapo, ha concluso Cesana, da un cristianesimo degli inizi, da una testimonianza di una vita diversa, di un’umanità altra, da un incontro con una presenza che scuote la vita.
Oggi, se succede qualcosa nel mondo, non solo lo sappiamo in tempo reale, ma viviamo in un contesto di eccesso informativo che sempre più spesso, anziché aiutarci a farci un’idea chiara e a dare un giudizio su un determinato episodio, ci complica le cose. I media e chi li dirige e li governa, in questo senso, hanno delle enormi responsabilità, poiché la scelta della notizia da dare e a quanto risalto darle è loro esclusivo appannaggio. Sulle notizie, o sulle mezze notizie quando non addirittura sulle bugie, infatti, con una certa frequenza vengono imbastite campagne di stampa e di opinione che investono il pubblico e finiscono con il fare cultura. Un solo episodio a titolo di esempio: a metà febbraio è stata diffusa da tutti i mezzi d’informazione la notizia che Gianluca Rana, figlio del più famoso Giovanni patron dei tortellini e attuale dirigente dell’azienda di famiglia, era stato condannato per aver dato del “finocchio” a un dipendente. Ancora oggi, se si digita il suo nome su Google, i primi risultati che compaiono dopo la sua biografia sono i titoli dei giornali che rilanciano la notizia. Purtroppo però le cose non sono andate così, e a premurarsi di farlo notare c’è stato solo Filippo Facci sul quotidiano Libero, che ha rimesso le cose in ordine spiegandone i dettagli. Resta il fatto che nell’immaginario collettivo Gianluca Rana resterà un omofobo discriminatore e verrà ricordato per questo.
Ma oggi, allora, è possibile raggiungere la verità attraverso i media? È la domanda alla quale ha voluto rispondere Sergio Belardinelli, professore di Sociologia all’Università di Bologna, durante la conferenza tenuta per la Scuola di Cultura Cattolica lunedì 4 marzo dal titolo “L’uomo, i media, la verità”. “La verità che viene raccontata dai giornali è ‘possibile’, cioè non può essere completa”, ha esordito Belardinelli. Il motivo è legato al fatto che chi racconta una certa cosa non può non può fare a meno costitutivamente di filtrare quell’esperienza secondo i suoi valori, le sue idee, i suoi giudizi. Se quando si parla di “verità di ragione” il contrario di “vero” è “falso” (chiunque sostenesse che un triangolo ha 5 lati verrebbe a ragione considerato un pazzo), le cose cambiano nel caso di “verità di fatto”, che riguarda la storia degli uomini e la società. “Il contrario della verità di fatto non è il falso – ha quindi spiegato – ma è la menzogna intenzionale”. Il problema dei media, quindi, non è tanto il “pluralismo degli sguardi”, ma il fatto che in più di qualche occasione si usi la menzogna per far valere le proprie ragioni.
“Fino a 20 anni fa più informazione significava più libertà, controllo della realtà, più conoscenza. Oggi non siamo più sicuri che sia così”. Una delle prime cause, secondo Belardinelli, è che “i mezzi di comunicazione non sono più soltanto mezzi nelle nostre mani, ma siamo passati dall’usare il telefono per chiamare qualcuno a chiamare qualcuno per poter usare il telefono”. Il cellulare è diventato ciò che media il nostro rapporto con la realtà al punto che “uno pensa che la rappresentazione della realtà venga prima della realtà stessa. I cellulari sono diventati gli ‘a priori’ che regolano il nostro rapporto con ciò che ci circonda”.
Un discorso analogo si potrebbe fare per il mondo dei social network: “al loro esordio si riteneva che si stessero creando nuove piazze digitali che avrebbero aperto nuovi spazi di democrazia”. Invece si è creata una situazione di autoreferenzialità che gli studiosi chiamano “camere dell’eco”: le informazioni circolano, ma vengono selezionate attraverso algoritmi grazie ai quali ad un utente vengono sottoposte solo notizie che a lui potrebbero interessare o che si riferiscono alla sua esperienza e alle sue abitudini. Così “è come essere di fronte a gente che se la canta e se la suona. La democrazia non avrebbe da guadagnare da una rete fatta così”.
La soluzione non sta nella censura, come alcuni ipotizzano, me nell’educazione: “certi problemi si risolvono nelle scuole e nelle famiglie, tornando alla verità delle cose”. Oggi, però, chi parla più di verità? Non c'è forse parola più screditata e più svuotata di significato. Non sostenerla, tuttavia, sarebbe un errore grave: “escludere la verità dal discorso pubblico significa aprire alla dittatura della maggioranza – ha concluso Belardinelli –. La partita si gioca tornando a parlare non di media, ma di ciò che vogliamo essere noi”.
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Famiglia e vita sono state al centro del primo incontro del ciclo primaverile della Scuola di cultura cattolica, che ha visto come relatore il domenicano p. Giorgio Carbone. L’intervento di p. Carbone ha preso le mosse dalla constatazione che tutta la rivelazione biblica è un “mistero nuziale”. “Quando noi siamo chiamati ad esistere – ha affermato – siamo chiamati a partecipare a questo mistero” e non deve stupire che proprio su tale disegno di amore si concentri l’opera distruttiva del Maligno: da qui i continui attacchi alla famiglia e alla vita degli ultimi decenni.
Uno dei grandi meriti dell’enciclica Humanae Vitae di Papa Paolo VI è quello di aver rivelato quale sia il disegno di Dio sull’amore coniugale, che è una “manifestazione in cui lui e lei vivono il disegno sponsale che Dio ha sull’umanità”.
E quali sono i fini del matrimonio? La generazione dei figli e la comunione degli sposi, dice il catechismo di Pio X. Il fine più alto del sacramento del matrimonio, ha aggiunto Carbone, è la santità dei coniugi. La metafora più appropriata è quella della donazione: “tu ti dai tutto per sempre. L’amore totale, volontario e incondizionato non contempla condizioni (temporali o legate alla contingenza)”. L’amore coniugale, perciò, è “totale, fedele e fecondo”. L’aspetto della fecondità, della maternità e della paternità, sono centrali in Humanae Vitae: Paolo VI parla di “procreazione”, che è cosa diversa dalla “riproduzione”. Procreare significa che i genitori compartecipano consapevolmente con Dio alla creazione, che è una missione altissima.
“Donazione di sé e procreazione – ha proseguito – sono inscindibili dall’atto di unione”: se si ammette la contraccezione, e quindi se si sgancia l’atto di unione dalla sua finalità procreativa, “non si avranno più argomenti per contrastare la fecondazione artificiale, l’infedeltà, la fornicazione, l’aborto, il divorzio, la denatalità, l’omosessualità”. Sta qui il carattere profetico di Humanae Vitae che ha dato il titolo all’incontro.
La diffusione della mentalità contraccettiva non è priva di conseguenze per le stesse donne, in prima battuta. Essa rischia infatti di trasformare l’unione da una “societas di amore” a una unione strumentale finalizzata alla riproduzione, perciò il primo rischio è che l’uomo inizi a considerare la donna uno strumento, un mezzo.
È importante che la Chiesa parli di temi legati alla legge naturale, ha poi precisato p. Carbone rispondendo a una domanda del pubblico, perché essa non è una legge fisica. “La legge morale non è una l’azione conseguente di fenomeni, ma è la ragionevolezza pratica nel cogliere dei beni la cui realizzazione consiste nel perfezionamento dell’uomo. Siccome la Chiesa si occupa di salvare l’uomo, tutto l’uomo, allora si occupa anche di temi legati alla morale naturale”.
Perché la Chiesa oggi parla pochissimo delle vite perdute nella fecondazione artificiale? “Il card. Biffi sosteneva che contro l’insipienza umana siamo disarmati. Si parla d’altro per non guardare la realtà: su 100 embrioni che vengono prodotti in vitro ne arrivano al parto, se va bene, in 6 e gli altri finiscono nel lavandino”.
Padre Carbone ha concluso evidenziando come la stessa Humanae Vitae sia stata contestata, a suo tempo. Alcune Conferenze episcopali la osteggiarono, altre la sostennero. Tra i sostenitori vi furono, ad esempio, i cardinali Albino Luciani e Karol Wojtyla. “In molti uomini di Chiesa però c’è la tendenza alla mondanizzazione, ad andare al passo con il mondo anziché seguire Cristo”.