Oggi, se succede qualcosa nel mondo, non solo lo sappiamo in tempo reale, ma viviamo in un contesto di eccesso informativo che sempre più spesso, anziché aiutarci a farci un’idea chiara e a dare un giudizio su un determinato episodio, ci complica le cose. I media e chi li dirige e li governa, in questo senso, hanno delle enormi responsabilità, poiché la scelta della notizia da dare e a quanto risalto darle è loro esclusivo appannaggio. Sulle notizie, o sulle mezze notizie quando non addirittura sulle bugie, infatti, con una certa frequenza vengono imbastite campagne di stampa e di opinione che investono il pubblico e finiscono con il fare cultura. Un solo episodio a titolo di esempio: a metà febbraio è stata diffusa da tutti i mezzi d’informazione la notizia che Gianluca Rana, figlio del più famoso Giovanni patron dei tortellini e attuale dirigente dell’azienda di famiglia, era stato condannato per aver dato del “finocchio” a un dipendente. Ancora oggi, se si digita il suo nome su Google, i primi risultati che compaiono dopo la sua biografia sono i titoli dei giornali che rilanciano la notizia. Purtroppo però le cose non sono andate così, e a premurarsi di farlo notare c’è stato solo Filippo Facci sul quotidiano Libero, che ha rimesso le cose in ordine spiegandone i dettagli. Resta il fatto che nell’immaginario collettivo Gianluca Rana resterà un omofobo discriminatore e verrà ricordato per questo.
Ma oggi, allora, è possibile raggiungere la verità attraverso i media? È la domanda alla quale ha voluto rispondere Sergio Belardinelli, professore di Sociologia all’Università di Bologna, durante la conferenza tenuta per la Scuola di Cultura Cattolica lunedì 4 marzo dal titolo “L’uomo, i media, la verità”. “La verità che viene raccontata dai giornali è ‘possibile’, cioè non può essere completa”, ha esordito Belardinelli. Il motivo è legato al fatto che chi racconta una certa cosa non può non può fare a meno costitutivamente di filtrare quell’esperienza secondo i suoi valori, le sue idee, i suoi giudizi. Se quando si parla di “verità di ragione” il contrario di “vero” è “falso” (chiunque sostenesse che un triangolo ha 5 lati verrebbe a ragione considerato un pazzo), le cose cambiano nel caso di “verità di fatto”, che riguarda la storia degli uomini e la società. “Il contrario della verità di fatto non è il falso – ha quindi spiegato – ma è la menzogna intenzionale”. Il problema dei media, quindi, non è tanto il “pluralismo degli sguardi”, ma il fatto che in più di qualche occasione si usi la menzogna per far valere le proprie ragioni.
“Fino a 20 anni fa più informazione significava più libertà, controllo della realtà, più conoscenza. Oggi non siamo più sicuri che sia così”. Una delle prime cause, secondo Belardinelli, è che “i mezzi di comunicazione non sono più soltanto mezzi nelle nostre mani, ma siamo passati dall’usare il telefono per chiamare qualcuno a chiamare qualcuno per poter usare il telefono”. Il cellulare è diventato ciò che media il nostro rapporto con la realtà al punto che “uno pensa che la rappresentazione della realtà venga prima della realtà stessa. I cellulari sono diventati gli ‘a priori’ che regolano il nostro rapporto con ciò che ci circonda”.
Un discorso analogo si potrebbe fare per il mondo dei social network: “al loro esordio si riteneva che si stessero creando nuove piazze digitali che avrebbero aperto nuovi spazi di democrazia”. Invece si è creata una situazione di autoreferenzialità che gli studiosi chiamano “camere dell’eco”: le informazioni circolano, ma vengono selezionate attraverso algoritmi grazie ai quali ad un utente vengono sottoposte solo notizie che a lui potrebbero interessare o che si riferiscono alla sua esperienza e alle sue abitudini. Così “è come essere di fronte a gente che se la canta e se la suona. La democrazia non avrebbe da guadagnare da una rete fatta così”.
La soluzione non sta nella censura, come alcuni ipotizzano, me nell’educazione: “certi problemi si risolvono nelle scuole e nelle famiglie, tornando alla verità delle cose”. Oggi, però, chi parla più di verità? Non c'è forse parola più screditata e più svuotata di significato. Non sostenerla, tuttavia, sarebbe un errore grave: “escludere la verità dal discorso pubblico significa aprire alla dittatura della maggioranza – ha concluso Belardinelli –. La partita si gioca tornando a parlare non di media, ma di ciò che vogliamo essere noi”.