Un giudice “come Dio comanda”, ma anche e forse soprattutto un uomo normale che “non è scappato dinanzi a una chiamata e a una responsabilità in anni in cui la magistratura era già fortemente ideologizzata.” È il ritratto che lunedì 7 ottobre Domenico Airoma ha fatto di Rosario Livatino, giovane magistrato di Canicattì assassinato dalla Stidda il 21 settembre 1990 che Papa Francesco ha proclamato beato nel 2021.
Quello di Livatino è un esempio a tal punto che, insieme a Mauro Ronco e ad Alfredo Mantovano, lo stesso Airoma ha proposto nel 2015 di intitolargli un Centro di studi giuridici che oggi è diventato un riferimento costante per chi si occupa della materia e non, contribuendo in maniera originale a leggere le vicende giuridiche ed istituzionali alla luce del Magistero e della Dottrina sociale della Chiesa.
Dopo essere venuto a conoscenza delle vicende di questo collega ucciso a trentasette anni, Airoma ha iniziato una sua personale indagine “nella Sicilia profonda dove si contavano decine di morti ammazzati al mese e si contendevano il territorio la Stidda e la Mafia.”
È quindi andato nei suoi luoghi, innanzitutto a Canicattì, dov’era nato e dove viveva avendo scelto di non abbandonare il posto in cui era venuto al mondo pur potendo ambire a fare carriera in procure più blasonate. Una decisione dettata non da sentimentalismo ma dalla presa di coscienza di una precisa responsabilità, quella di rispondere a una vocazione prendendo atto che se la Provvidenza ci ha collocato in un posto ci dev’essere un motivo. “Quando parliamo di una persona che ha inciso nella storia di un Paese e che per di più è beata, ha senso se genera in noi la domanda di quale sia il nostro ruolo rispetto alla realtà in cui sono stato collocato”, ha spiegato Airoma. “Livatino poteva andarsene da Canicattì, invece rimane in quel contesto, con il capo cosca mafioso che gli abita sopra”.
“Il suo primo obiettivo è ridare alla sua comunità la dignità che non aveva più, per quello resta a fare il magistrato nei suoi luoghi” per di più occupandosi di indagini sulla Mafia “in un contesto in cui non esistevano gli strumenti normativi come il carcere duro, le intercettazioni, le direzioni distrettuali antimafia che arriveranno anni dopo.”
Perché prende questa scelta di restare lì, in mezzo al pericolo? “Aveva una grande passione per la giustizia e per affermarla, ma poteva farlo altrove. Cosa lo spinge al sacrificio? La risposta è nell’agenda, in cui segna il giorno del giuramento da magistrato con l’annotazione ‘spero di essere all’altezza dell’alto compito e dell’educazione che mi hanno impartito i miei genitori’ scritta insolitamente con l’inchiostro rosso anziché con il solito nero”, cosa che a posteriori suona come un presagio del sangue che avrebbe versato. “Picciotti, che male vi ho fatto?” sono le ultime parole che rivolge ai suoi sicari prima che esplodano gli ultimi spari mortali.
Livatino “non rilascia interviste, rifugge le telecamere, scrive solo un paio di libri. Rendere giustizia per lui è come rispondere ‘presente’ a una chiamata, a una vocazione, nel luogo in cui la Provvidenza ha voluto porlo. Non pensiamolo bigotto, sarebbe una semplificazione ingrata. Si tratta di una fede talmente radicata al punto che è la sua vita che parla per lui.” Era giusto perché cristiano, e i mafiosi lo sapevano al punto da apostrofarlo chiamandolo “il santocchio”. Era un uomo a tutto tondo con le sue passioni e i suoi desideri, in fondo un santo è questo.
Con il suo esempio “ci fa scoprire l’essenza, il perché di un certo impegno: quando lui rendeva giustizia avvertiva che Dio era contento”, ha proseguito Airoma. Non a caso si occuperà di temi come la difesa della vita e l’obiezione di coscienza. “Si rendeva conto di quanto fosse importante ritornare al fondamento e alla radice del diritto che è la verità sull’uomo. Siamo fatti per la carità, non per vivere in una logica di do ut des.”